martedì 26 maggio 2015


DESCRITTI: LA MEMORIA E IL TEMPO PRIGIONIERO

 



 

NEL FOLTO DEI SENTIERI

di Umberto Piersanti

 

Titolo: Nel folto dei sentieri

Autore: Umberto Piersanti

Pagine: 240

Editore: Marcos Y Marcos

 

 
Quella di Umberto Piersanti è un figura di spicco nel panorama letterario nazionale; la sua poetica svaria ma resta fondamentalmente ancorata all'esistenzialismo novecentesco, filtrato da una particolare sensibilità emotiva, una luce che si illumina di paesaggi che poi passano diretti e pulsanti attraverso la sua penna, in versi che hanno la fluidità dell'acqua di fonte, il candore della neve sui monti, ma anche e soprattutto l'ardore del sentimento genuino.

Poche ma significative sono le domande che si pone Piersanti. Domande che riportano alla mente il passato, ponendolo in un continuo confronto con la realtà circostante. Tali domande sono il motivo ricorrente delle liriche raccolte nel "Folto dei sentieri".

È il tempo la miglior risposta. Il tempo che sfoca i ricordi e cambia volti suoni e colori, lasciando nomi e immagini libere di essere modellate a piacimento. Il tempo avvicina tutti alla fine, all'ultimo istante che vorremmo mai arrivasse, o almeno vorremmo arrivasse quando avremo ancora il capo alto e l'orgoglio fiero e non il corpo chino di chi è stato vinto, piegato.

"...forse c'è un luogo dove il vento le posa/ dove rimane incisa ogni figura/ dove non c'è gesto e respiro che si perda/ un luogo che sia sbarrato al tempo per l'eterno...".

La poesia di Piersanti è un sentiero che si srotola tra campi e valli, fiumi e cielo, campagna e città. In questo svolgersi l'occhio resta rapito da immagini che, vivide e sanguigne come in un fresco dipinto, acquisiscono spessore come per un tocco magico. Perdervisi è un attimo e il tempo si ferma

"...e lì s'arresta il tempo come nel quadro?/ e cessa lo sgomento per le ore che tregua non concedono al tuo giorno?...".

ed è sovente la figura del figlio Jacopo a emergere, insieme alle domande perenni del genitore che vede trascorrere l'esistenza e con gli anni emergere interrogativi, timori, affanni.

Versi semplici, che sanno di vissuto, di odorose verità.

Versi vaganti, complici di una memoria che non cede. Come sempre, anzi, essa vaga nel tempo che fu, alla ricerca di istanti, immagini, sensazioni felici. Questo vagare muta e assorbe le parole del poeta, i suoi versi diventano un personale diario di bordo, quello del capitano che naviga su acque scure e limacciose con la forza di una viola d'inverno che squarcia le nebbie portando in salvo il ricordo con gran nitidezza.

In questo alternarsi di quadri e paesaggi, la malinconia fa capolino, ogni tanto:

"...oggi/ in questi prati passo con una donna e un figlio/ un figlio che non guarda e non t'ascolta/ a queste luci e rami indifferente/ abita una contrada senza erbe e fiori/ e non c'è nessun altro nella sua strada/ ma lui avverte gli evi i più lontani/ il tempo che precede alberi e pietre...".

È un amore dichiarato, quello per il figlio, ma anche quello per la natura, i paesaggi e le nevi, il cielo e i fiori e gli animali che incontrava lungo strada.

"...Sempre ho scelto la terra e non il cielo/ ma quel giorno la terra era in cielo...".

"...Sempre m'è stata cara la stagione dei ghiacci e delle viole/ dentro i giorni sospesi ci sono nato...".

I versi di Aspettando l'inverno (su per la gola del Furlo) sono un mondo ancestrale che si risveglia nel tempo odierno. Suoni e figure, sentieri e luoghi che spuntano dietro l'ultima foglia di un albero centenario oppure lungo la scura linea dell'orizzonte dei monti impervi e solitari. Quei versi sono magia, credenza popolare, sogno e pensieri, bellezza e voci surreali. L'umida nebbia cela i contorni, lasciando trasparire solo l'odore gravido della terra bagnata. Gli umori, le palpitazioni di un mondo che è diverso a ogni passo compiuto ti entrano dentro come hanno fatto, per lungo tempo, con l'Autore dei versi.

Uno struggente canto d'amore, libero e spontaneo, senza calcoli o mire secondarie. Diretto e pungente come il vento in alta quota, tonante sulle creste dei monti ma anche silenzioso ed elegante come la neve che pian piano scende nei boschi.

La memoria che porta con sé i primi fremiti amorosi.

La memoria che rimpiange il padre, quelle braccia forti di uomo e le sue mani esperte.

"...Padre, la tua stagione sento dentro il sangue/ a quel tempo appartengo/ a quei sentieri di sassi bianchi e aspri/ e tu fugavi l'ombre nel cammino/ la tua mano mi guida tra i dirupi...".

Quel padre ora assente, oggi solo ricordo e dolce richiamo della mente.

La poesia di Piersanti non è però triste, sconsolata. È giusta. Di quel giusto che si impara solo col tempo, senza rinnegare il passato ma aprendo gli occhi per proseguire il cammino.

"...Oggi m'aggiro solo nel freddo bianco/ cerco le orme antiche di chi m'ha retto e forte sostenuto/ nel turbine che scende giù al mio fosso/ cerco le ombre che m'hanno guidato/ ma la neve è deserta/ sono lontane...".

Il viaggio di Piersanti è lungo, è uno sfogliar di pagine di una lunga e immaginaria confessione.

È il percorso del viandante ignaro eppure speranzoso.

Il viaggio di "...chi non sa dove andare meglio cammina/ nel buio che s'annuncia conviene perdersi/ i sentieri tra i campi sono infiniti/ la fonte sta dovunque o in nessun luogo...".  

 

lunedì 20 aprile 2015



DESCRITTI:
IL FASCINO DI UNA STORIA DI CARTA
 
 
 

LA CARTA DELLA REGINA

di Giorgio Caponetti
 

Titolo: La Carta della Regina

Autore:Giorgio Caponetti

Pagine: 336

Editore: Marcos Y Marcos
 




 
La carta affascina, narra, intriga, testimonia.

Le carte antiche recano testimonianze che aprono scenari, rispondono a decennali domande.

Pertanto, valgono. E valendo, c’è chi farebbe carte false (e spenderebbe soldoni) pur di possederle.

La carta della regina è un documento reale, legato alla storia della bisnonna di Federico II di Svevia, tale Adelasia Incisa del Vasto (anche detta Azelais o Adelaide).

Vissuta tra la fine del XI secolo e l’inizio del XII, la sua notorietà è legata al documento cartaceo più antico del mondo occidentale. E su tale documento verte parte del romanzo, anche se sarebbe riduttivo limitarsi a questo.

La ricerca documenta le idee dell’autore, tal Giorgio Caponnetti ex pubblicitario e allevatore di cavalli, narratore col vento in poppa. La sua è vera vena narrativa, non semplice esercizio.

Alvise Pàvari dal Canal, docente di Ippologia alla Ca’ Foscari, personaggio a tutto tondo creato dalla penna del suddetto Caponnetti, è il protagonista di quest’avventura tra i profumi e le leggende della Sicilia (le cronologie mi dicono si tratti della terza. Confesso che è la prima, per me. Colmeremo col tempo anche questa lacuna).

Alvise, veneziano doc, si trasferisce in terra di Trinacria per partecipare al matrimonio dell’amata nipote Anna Rosai con il nobile Rosario Marescalchi di Brancaforte.

La famiglia di Rosario, nobile decaduta e indebitata fino al collo, si trova a dover affrontare guai a ripetizione che mettono fuori causa il patriarca Ruggiero (per sempre) e il nipote Manfredi (immobilizzato su una sedia a rotelle a causa di una caduta).

Sulla tenuta di Brancaforte si allungano le mani della mafia, che rileverebbe (tramite presta nome) l’intera proprietà.

L’unico modo per scongiurare la vendita all’incanto, sarebbe reperire una somma pari a un milione di euro.

 Sarà Alvise a procurarla, grazie alle conoscenze e alle sue garanzie.

Qui mi fermerei perché detesto anticipare le trame.

Il fascino discreto dell’elegante Adelaide Marescalchi detta Dedè (zia di Rosario) farà da spalla all’acume e allo spirito vivace ed essenzialmente colto dell’ippologo.

Il risultato sarà un intrigante viaggio nella cultura della carta e della storia siciliana, un ponte sospeso tra passato e presente, con frequenti diramazioni e divagazioni.

La proprietà di tecnica e informazione impreziosisce il testo, anche se l’intento appare quello di viaggiare con leggerezza, tra battute non scontate e acute riflessioni.

Alvise è un personaggio che delinea ben presto le proprie peculiarità: è curioso, colto, osservatore, ma anche premuroso e devoto amico.

Il romanzo parte lento, ma è solo un carburare costante, come di chi la penna sa usarla e sa cosa vuole ottenere.

L’effetto è quello dilatato dei romanzi leggeri ma saporosi di cultura, di aromi e di vita.

La conoscenza si evince nelle descrizioni del mondo equestre, nelle documentate scene di falconeria e nell’intrigante mondo dell’antica arte di fabbricare la carta.

La simpatia dei personaggi, poi, la fa spesso da padrona.

Caponnetti ne stila un elenco come nella migliore tradizione giallistica, anche se di giallo non si tratta.

Come dimenticare, oltre allo stesso Alvise e la spalla Dedé, l’illogico senescente zio Ruggero, il falconiere Celòt e lo strozziere Medardo, il simpatico Toni (factotum di Ca’ Pàvari) che sembra godere nel contraddire il buon Alvise, il canaro Turi, misterioso e saggio, lo sbrindellato Aristotele Sennacheribbe, particolarissimo erudito che si diverte a maltrattare il povero Alvise nella terza parte del romanzo (uno dei personaggi che più mi ha colpito)? E l’antenata Adelasia, personaggio presentatoci attraverso memorie e voci degli altri, ma più presente di uno in carne e ossa?

Il sapore del mistero, del fascino arcano della donna, la curiosità, saltano fuori in molte pagine, aggredendo l’occhio del lettore e carpendone l’attenzione, con fiumi di loquacità mai stucchevole e sentieri da scoprire alla ricerca del finale.

La leggerezza è il carattere prevalente dell’Autore (ometto il sembra essere in luogo di è, perché ne sono certo), quasi con certa perfidia egli distilla azioni e apre visuali, svelando a poco a poco con ritmo tale da farti assorbire la narrazione, affinché tu non la senta mai stancante.

E così Caponnetti fa centro.

La curiosità gioca un bel ruolo, senza esaurirsi. Sfocia magari in altri interrogativi, e lasci l’ultima pagina con la sensazione di aver letto un libro piacevole, magari non indimenticabile ma di certo gustoso come il latte di mandorle, come il profumo delle zagare e i succosi frutti.

La voglia di leggerne un’altra c’è, ma quella la soddisferemo alla prossima avventura.

N’est pas, Alvise?

 

lunedì 23 marzo 2015


DESCRITTI: STORIE DI NUOVA COSCIENZA LUSITANA

 



 
ALBA SPORCA

di Miguel Sousa Tavares

 
Titolo: Alba sporca

Autore:Miguel Sousa Tavares

Pagine: 304

Editore: Neri Pozza

 

 Quanto può essere sporca un'alba? Quanto può pesare un'ingenuità, un breve momento di buio nella gioventù, nel decorso di una vita?

L'alba di cui parla Manuel Sousa Tavares, autore portoghese tradotto in 11 lingue e pubblicato in 30 paesi, premio Grinzane-Cavour nel 2006 per Equatore, non ha i connotati di un periodo della giornata, non è una di quelle albe in riva al mare o affacciati alla finestra di una baita montana, quando scorgi i barlumi della luce di un nuovo giorno.

L'alba di Tavares è sporca come le coscienze, come le realtà reali di una società che cambia,  mettendosi alle spalle dignità e orgoglio dei tempi passati, quando ci si batteva per un ideale. È sporca come uno stupro, un'allucinante omesso soccorso, una corsa contro l'alcol e la depravazione, come il tacere per non veder compromessa la propria esistenza futura.

Questo accade nel romanzo di Tavares. Questo, e molto altro.

La vicenda vede protagonista Filipe Madruga, architetto del comune di Vila Nova d'Odemar, nell'Alentejo.

Egli è sì integerrimo e corretto, ma nasconde una spina nel proprio passato.

Anzi, più di una.

Nel tempo, Filipe ha scoperto di dover la sua esistenza a persone con le quali non ha legami di sangue. L'unica con cui è legato per ragioni biologiche, sua madre, si è lasciata morire giovanissima. Il padre (o almeno quello che Filipe considera tale, per lungo tempo) parte per l'avventura rivoluzionaria che avrebbe dovuto dare la terra a chi la lavora, nelle Unità Collettive di Produzione.

La Rivoluzione dei Garofani lo attira ed egli molla il piccolo borgo di Medronhais da Serra, il figlio e i genitori (la moglie, Maria da Graça, già non esisteva più per lui). Sarebbe morto schiacciato da un trattore.

Filipe, ormai trentenne, riallaccia periodicamente i suoi legami con il piccolo paesino, abbandonato da tutti tranne che da nonno Tomaz.

A Pasqua e a Natale, l'architetto Madruga torna dal nonno, l'unico che non ha mai voluto abbandonare Medronhais da Serra, fino a quando "... di giorno parlava con gli animali e la notte con le stelle del cielo, fin dove arrivava la vista, fin dove arrivava l'eco della sua voce. Non c'era più nulla a far ricordare che un giorno Medronhais era stato un paese abitato dalla gente e dalla vita, dall'allegria e dalla tristezza, come tutti i paesi e tutte le vite."  

Filipe ricorda così il signor Octávio, il barbiere del Salone Moderno, l'unico insieme al dottor Chagas a ricevere il giornale; il Caffè Centrale, la maestra Fátima, la prima a innescargli dei pensieri erotici fino a quando, dopo esser stata concupita da padre Anselmo, è costretta a lasciare il paese.

E ancora la bella Gualdina, che Filipe ammirava nuda nella vasca da bagno, come ritratta nelle foto che il fratello di lei, il brufoloso Gualter, gli vendeva di nascosto per dieci escudos.

E tanto altro, come l'amore per il calcio della squadra del Porto, vista per la prima volta al televisore a colori di Manuel da Toca, o il ricordo delle saporite pietanze che preparava nonna Filomena o le battute di caccia al cinghiale vissute con nonno Tomaz, o il sapore della merenda con le cipolle, perduto per sempre per andar via, per vedere il mare.

La vita, come detto, riserva a Filipe strani e improvvisi ribaltamenti, rese di conti che è lui stesso a innescare rifiutando un tentativo di corruzione.

La sua esistenza, quindi, interferisce con due figure che sono state importanti nel suo passato e che egli incontra dopo tanti anni: il politico Luìs Morais, futuro primo ministro portoghese, e l'affascinante magistrato Maria Rodrigues.  

Scelte difficili dovrà compiere Filipe, secondo coscienza.

Sullo sfondo, le vicende politiche del Portogallo negli ultimi trent'anni, dal rovesciamento della dittatura di Salazar nel 1974 fino ai giorni nostri.

Fiumi di denaro piovuti su un paese ancora alla ricerca della modernità, del proprio contesto sociale, tra corruzione e intrighi, abusi e prese di posizione.

La penna di Tavares è linda, secca, tratteggia scene e personaggi senza orpelli, senza fregi inutili. Belle le concatenazioni, fascinosa l'ambientazione (il Portogallo letterario non sarà solo Saramago!).

Peccato, a mio modesto parere, per un finale un po' morbido.

Le ultime pagine mi sono sembrate in bilico tra l'esigenza di una trovata a effetto e la fretta di concludere.

Qualcosa di elaborato non avrebbe potuto che elevare la qualità generale. Nel complesso, un libro che mi è piaciuto, di quel gradimento che poteva però essere maggiore.

Alla prossima, senza rancore.

lunedì 26 gennaio 2015

MIEI ARTICOLI SU ATMOSPHERE_A WARM PLACE

NOVITA'? LE MIE COLLABORAZIONI

Salve, internauti che, per uno strano scherzo del destino, siete derapati sul mio blog. Se non volete annoiarvi, in attesa di un futuro (mai disperare) salvataggio (che però non è detto ci debba essere per forza), potreste darvi alla lettura di questi interessanti articoli che ho scritto per il sito di cultura Atmosphere_a warm place. I link verranno aggiornati man mano che procede la pubblicazione.

http://www.atmosphereblog.com/il-canto-delirante-dellamerica-cormac-mccarthy/

http://www.atmosphereblog.com/antoine-de-saint-exupery-un-passaggio-per-leternita/

http://www.atmosphereblog.com/giorgio-scerbanenco-lo-scrittore-calibro-9/

http://www.atmosphereblog.com/jules-giulio-verne-dalla-terra-alla-luna-e-ritorno-in-ottanta-giorni/

http://www.atmosphereblog.com/stephen-king-comincio-tutto-con-quella-nebbia-del-maine-almeno-per-me/

http://www.atmosphereblog.com/le-ombre-innocenti-del-vecchio-scrooge/

http://www.atmosphereblog.com/charles-dickens-il-lucido-occhio-romantico-della-societa-vittoriana/

http://www.atmosphereblog.com/david-foster-wallace-eri-davvero-divertente/

http://www.atmosphereblog.com/herman-melville-non-chiamatelo-solo-ismaele/

http://www.atmosphereblog.com/bjorn-larsson-tra-pirati-immaginari-e-sogni-incrociati/

http://www.atmosphereblog.com/franz-kafka-le-varianti-esistenziali-della-lettera-k/

http://www.atmosphereblog.com/raymond-carver-e-il-taglio-della-torta/

http://www.atmosphereblog.com/joseph-conrad-il-lato-tenebroso-dellavventura/

http://www.atmosphereblog.com/john-steinbeck-linfinita-epopea-degli-sconosciuti/

DESCRITTI: LE IMPRESSIONI ACUTE DI UN INGUARIBILE SOGNATORE

 



 

ATLANTE IMMAGINARIO - Nomi e luoghi di una geografia fantasma

di Giuseppe Lupo

 

Titolo: Atlante Immaginario - Nomi e luoghi di una geografia fantasma

Autore:Giuseppe Lupo

Pagine: 160

Editore: Marsilio

 

 

Atlante... che nome magico è stato questo per me quando, da spirito che iniziava a sbocciare in quel delle elementari, trascorrevo ore e ore a percorrere strade, memorizzare nomi di città, fiumi, mari e montagne. E immaginare mondi, geografie, genti e parlate.

Atlante immaginario? Certo, perché no?

Sarebbe stato nelle mie corde scriverne, peccato che l'abbia fatto già qualcun altro.

Ora, potrei rammaricarmene in eterno, come se quel qualcuno mi avesse rubato non dico l'idea, ma almeno l'emozione di farlo. E invece, come avrei dovuto immaginare, quel qualcuno l'ha fatto in maniera egregia, non fosse altro perché diversa da come avrei fatto io.

E, nonostante questo ammanco (?), l'ha fatto pure in maniera ricca di fascino, colta e spigliata, leggera e arguta, accessibile a tutti pur nella sua ineffabile correttezza, perché non stanca mai la lettura.

Ho scoperto Giuseppe Lupo non da molto, a esser sinceri. Ma, da quando è avvenuto, sono contento di averlo aggiunto, seppur da poco, negli scaffali della mai - troppo - sazia fame di letture.

L'ultima sposa di Palmira e Viaggiatori di nuvole mi hanno rivelato una penna lieve, sognante e affabulatrice, flessibile e morbida come il caucciù, ma che quando vuole s'irrigidisce come uno stiletto e coglie nel segno, lasciando una traccia come le orme di un passaggio importante.

Lupo sa aprire porte chiuse da tempo, sensibilità sopite ma mai del tutto spente, venti che avvolgono con suoni e profumi di terre lontane eppure tanto vicine a noi da non rendercene nemmeno conto.

In quei libri, ho vissuto il saper narrare, il sapersi lasciare nelle spire del racconto che ti avvolge come un serpente bonario, nell'inconsistenza delle nuvole (tanto care a Lupo, vizio comune a tutti quelli che vivono anche di sogni).

E avverti quel senso di pellegrino della parola, quell'essere viaggiante sospeso sui luoghi e ondeggiante in un tempo letterario, quindi infinito.

Atlante immaginario (etc.etc.) non è però un libro di viaggio, e non è nemmeno un romanzo.

Non è una enciclopedia, e nemmeno una guida pretestuosa.

Non potrebbe, e in primis perché annovera scritti a cadenza che non hanno presunzione di insegnare niente a nessuno (semmai vogliono trasmettere emozioni), osservazioni e opinioni, spesso fatte con l'occhio del Palomar calviniano, e cogliendo sempre nell'attuale pur divagando in quel mondo del tutto e del nulla che tanto affascina (me stesso, in prima, seconda e terza persona).

I testi, provenienti da una rubrica che l'Autore teneva sull'Avvenire, coprono una serie di tematiche che l'hanno ispirato, tra cui molte notizie che ne hanno catturato l'attenzione (sovente si affaccia la sua curiosità sulle nuove tecnologie, e l'occhio arguto si affretta, ma con garbo, anche a visualizzarne effetti sul futuro della nostra vita) o ricorrenze particolari.

La parola, spesso, ha un connotato geografico. Ma non si tratta di una geografia reale (o più precisamente, non sempre), bensì di una geografia fantasma, che a volte esiste solo nella testa di chi scrive.

Probabilmente, è solo una geografia di luoghi e ricordi, a volte mondi inventati (Agropinto, Caldbanae, Palmira?), ma sempre con uno spirito che rimanda ai sogni dei bambini, quelli che si estraniano di colpo per partire sulle ali della fantasia (magari sulla "...poltrona volante di stoffa color nocciola...") e inventano storie, le vivono, ne soffrono e gioiscono, in preda a un entusiasmo che il divenire adulti, per fortuna, non sempre uccide.

Vorrei dire a Giuseppe Lupo che è vero, quanto egli sostiene (questa è un'epoca che ha ucciso la fantasia), ma è vero per fortuna un po' più della metà, e non oltre.

È vero che oggi, per esempio, gli "...Occhiali di Google non vedono le nuvole...". Ma è anche vero che ampliano le visioni, pur senza essere il motore vero della fantasia, della voglia di immaginare.

Per quello, c'è bisogno di tutto il nostro acume, di tutta la nostra sensibilità (quella, forse, non si potrà uccidere; magari occorre solo stuzzicarla, di tanto in tanto, per sentirla viva).

Infatti, come lui saprà, qualche cavallo libero ancora c'è, in giro. Di quelli che nitriscono su note proprie, indipendenti, capaci di scavalcare i recinti e correre all'impazzata, a perdifiato, spostandosi di qua e di là sulla spinta dell'estro, del gusto e, appunto, della fantasia.

Ed è bello conoscerne, di elementi simili. Non voglio scrivere di ogni breve capitolo che compone il testo, perché toglierei qualcosa e non aggiungerei migliorie.

Rivedo in certi passaggi quella meraviglia di scoperta che contraddistinse il Marco Polo nazionale, senza il quale avremmo atteso secoli per godere di certa conoscenza ("... e' non fu mai uomo né cristiano né saracino né tartero né pagano, che mai cercasse tanto nel mondo...", citando le ultime frasi de Il Milione).

Mi basta esternare la mia impressione: quella di un uomo (prima dell'Autore) che crede in ciò che scrive anche quando, magari, è invenzione pura.

E questa è la grande dote che aiuta a creare mondi immaginari, perché la parola scritta, usata per edificare (case o grattacieli, si vedrà), deve servire sì per elevare la cultura, il linguaggio, ma anche per un'altra esigenza dell'uomo, quello a cui nessuno dovrebbe mai rinunciare: il sogno.

E sognare, oggi, è ancora possibile.

Basta volerlo.

lunedì 28 luglio 2014

DESCRITTI: QUANDO IL TALENTO ABBONDA MA LA VITA RIESCE A CANCELLARE TUTTE LE PREMESSE

 
LA VITA PERFETTA DI WILLIAM SIDIS
di Morten Brask
Titolo: La vita perfetta di William Sidis
Autore: Morten Brask
Pagine: 387
Editore: Iperborea
 
La vita perfetta di William Sidis è, come spesso per fortuna accade, uno di quei libri che mi chiamano dallo scaffale, che si insinuano nel mio normale pensiero, come le cose belle dei tempi che furono.
Quelle cose che, in qualunque momento della tua vita tu possa pensarci, hanno sempre il sapore fascinoso della prima volta.
William Sidis era un nome per me sconosciuto, fino a qualche giorno fa. Oggi, lo sento vicino come se fosse un mio fratello.
Figlio di due medici ebrei immigrati negli USA per sfuggire al carcere zarista, William Sidis, detto Billy, era dotato di un quoziente di intelligenza tra i più alti mai registrati (alcune fonti dicono il più alto, ma si sa che con i numeri spesso non si riesce a descrivere completamente un fenomeno).
A 18 mesi leggeva il New York Times, a 4 anni imparò da solo greco e latino, a 6 memorizzava all'istante ogni libro che sfogliava.
La sua intelligenza, la grande memoria fotografica e la spiccata attitudine al ragionamento, alla memorizzazione e alle complicazioni del calcolo mentale, lo portarono a bruciare le tappe fino a presentarsi, a soli 11 anni, davanti a un pubblico di scienziati di Harvard per formulare la propria teoria sulla quarta dimensione.
Un mostruoso crescendo che non avrebbe dovuto far dimenticare, agli adulti, che davanti avevano in fondo solo un bambino, con la propria fragilità e il desiderio di crescere accompagnandosi alla più assoluta normalità.
Ma come si fa a essere e soprattutto a vivere in modo normale, quando si sale alla ribalta della cronaca, quando si è oggetto della curiosità e dello studio perfino da parte del proprio padre, oppure s’innesca una possessività maniacale da parte della propria madre?
Si finisce così per estraniarsi dalla realtà, perdendo i punti di contatto con i simili, senza riuscire a vivere e realizzare le cose più elementari, come giocare con i coetanei, dichiarare il proprio amore alla ragazza che ti piace, relazionarsi con il prossimo.
William cresce, ma ben presto un suo interesse per il socialismo lo spinge a esser protagonista di una manifestazione che, per quanto pacifica, porta a tafferugli e al conseguente arresto.
Nel frattempo, William aveva avuto modo di innamorarsi di Martha, la ragazza per la quale si era fatto trascinare in quella vicenda.
Pur se fiducioso nel rilascio in appello, sono i suoi genitori (nel frattempo il padre dirigeva una clinica per psico-patologie) ad anticipare i tempi con un’azione che disgrega in modo definitivo il rapporto con il figlio.
I coniugi Williams, certamente armati del miglior amore filiale ma erroneamente applicandolo, ne assumono la tutela facendo dichiarare William mentalmente instabile. E questo, agli occhi del sempre più introverso Billy, diventa il tradimento maggiore.
La sua fuga e il suo conseguente desiderio di far perdere le proprie tracce, la ricerca di un lavoro il più possibile anonimo, costituiscono la trama degli anni a venire.
L’unica persona che riuscirà a stargli vicino e, forse, ad accettarlo senza deluderlo, sarà un vecchio amico di Harvard, anch’egli fuggito dalla prospettiva di una brillante carriera ma per motivi del tutto differenti da quelli di William.
Eppure, l’amicizia vera non salverà il protagonista, morto per un’emorragia cerebrale, solitario nella imperfetta perfezione della propria esistenza.
Brask, talentuoso autore del libro, ne racconta la storia con sapienza, passione, linearità.
Il lettore si ritrova preso per mano, condotto e coinvolto nei momenti cruciali dell’esistenza di questo sfortunato genio, di questa vittima del proprio smisurato talento.
Lo stile di Brask è asciutto, suadente e mai ridondante. S’insinua nelle pieghe dell’animo con la dolcezza di una voce materna, senza mai cadere nell’abisso del patetico, pur rasentandone spesso l’orlo.
E il rifugiarsi, per scelta o costrizione, nei meandri della Vita Perfetta, o madama Solitudine che dir si voglia, è l’unico risultato cui approda Billy, in barba alle enormi potenzialità che la natura gli aveva fornito.
Inutile aggiungere altro, se non che ritengo La vita perfetta di William Sidis uno dei libri più belli che abbia letto negli ultimi anni, un segno piacevole che non ho perso il mio tempo.
E una lezione in più, per farmi capire (e farci capire) che non basta il talento per vivere una vita su misura, per essere liberi e non prigionieri di ciò che dovrebbe essere un dono, ma spesso si tramuta in un insostenibile fardello che baratteremmo volentieri con un sorso di normalità.